Elezioni 25 settembre, cosa è e come funziona la legge sulla par condicio

Tra le tante parole che spuntano soprattutto durante la campagna elettorale c’è sicuramente “par condicio”. In latino, l’espressione significa parità di condizioni, mentre nel linguaggio politico invece indica la situazione in cui ogni soggetto in campo ha le stesse possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione di massa.

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Antonio Tajani, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Luciano Fontana, Enrico Letta e Carlo Calenda – lettoquotidiano.it

In Italia, la legge sulla par condicio è stata introdotta nel 2000 dal governo di Massimo D’Alema e sarebbe servita specialmente per porre un freno al potere mediatico di Silvio Berlusconi, allora leader indiscusso del centrodestra e proprietario di giornali e televisioni (come anche adesso). Ora la normativa risulta essere un po’ anacronistica perché non si occupa di internet.

Come funziona nel concreto la legge sulla par condicio

La par condicio, come si legge nella definizione del vocabolario Treccani su internet, è una locuzione latina che significa “uguale condizione” ed è usata in italiano come un sostantivo femminile. L’espressione, dicono ancora, è desunta dalla frase del linguaggio giuridico romano par condicio creditorum, che, in campo fallimentare, affermava il principio della parità di condizione dei creditori, cioè il loro diritto a essere rimborsati dal debitore fallito tutti quanti in uguale misura percentuale.

Ora, dopo la sua introduzione negli anni Novanta per il linguaggio politico, è passata, nella sua formulazione ridotta, a indicare la condizione di parità tra soggetti del mondo politico nell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa per propagandare le proprie idee.

La legge che regola la par condicio, appunto, è entrata in vigore il 22 febbraio del 2000 ed è stata introdotta dal secondo governo presieduto da Massimo D’Alema, quindi dal centrosinistra, e di cui faceva parte anche l’attuale segretario del Partito democratico, Enrico Letta.

Letta
Enrico Letta – lettoquotidiano.it

La ratio della norma era quella di arginare lo strapotere mediatico di Silvio Berlusconi, all’epoca leader indiscusso del centrodestra e di Forza Italia, che, esattamente come ora, possedeva giornali e la Mediaset. La necessità di una legge che regolasse l’accesso ai mezzi di comunicazione in tempi di campagna elettorale e non era stata espressa qualche anno prima dal precedente Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, proprio in riferimento al conflitto di interessi del Cavaliere – è stata però promulgata da Carlo Azeglio Ciampi.

Consta di 14 articoli, con il primo che chiarisce le finalità e l’ambito di applicazione, mentre con il secondo iniziano già i problemi non tanto al primo comma, quanto ai successivi. La comunicazione politica, infatti, è definita come “la diffusione sui mezzi radiotelevisivi di programmi contenenti opinioni e valutazioni politiche” che però “non si applicano alla diffusione di notizie nei programmi di informazione“, e sono invece tribune politiche, dibattiti, tavole rotonde, contradditori, che nel concreto sono davvero pochi.

A dettare le disposizione attuative sono per le emittenti pubbliche, quindi la Rai, la Commissione parlamentare di vigilanza, composta da deputati e senatori, e per le televisioni e le radio private dall’Autorità per la Garanzie nelle Comunicazioni, ovvero l’Agcom.

La legge distingue tra due periodi: quello elettorale e quello che non lo è. Nel primo, i due organismi sopra richiamati provvedono a emanare specifici regolamenti. In quello deliberato il 3 agosto per le elezioni del 25 settembre, sia l’Agcom, sia la Commissione parlamentare definiscono i soggetti politici in maniera diversa in base al periodo di riferimento.

In un primo momento, ovvero quello che finisce con la presentazione delle liste, lo sono solo quelli che costituivano un gruppo parlamentare alla Camera o al Senato, quelli che hanno almeno due rappresentanti al Parlamento Europeo, e quelli che rappresentano in parlamento una minoranza linguistica (è prevista una rappresentanza anche per le componenti del Gruppo Misto). Dopo, invece, vengono tutelate tutte le forze politiche che si presentano in abbastanza collegi da interessare almeno un quarto del corpo elettorale.

L’articolo 5 della legge n.28/2000, al comma 2, specifica anche come “dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto in qualunque trasmissione radiotelevisiva è vietato fornire, anche in forma indiretta, indicazione di voto o manifestare le proprie preferenze di voto“.

La legge disciplina anche i sondaggi elettorali, sia le modalità in cui devono essere eseguiti, sia come devono essere presentati, sia quando: “Nei quindici giorni precedenti la data delle votazioni – hanno scritto i parlamentari – è vietato rendere pubblici o, comunque, diffondere i risultati di sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori, anche se tali sondaggi sono stati effettuati in un periodo precedente a quello del divieto“. Ma regola, per esempio, anche la trasmissione degli spot elettorali, che di fatto in Italia, proprio per come sono regolati, non esistono.

Perché la legge sulla par condicio è criticata

Tra le maggiori critiche mosse alla legge del governo D’Alema sull’accesso ai mezzi di comunicazione per le forze politiche c’è sicuramente quello che riguarda l’obiettività, l’imparzialità, la completezza, ma soprattutto il “rigoroso rispetto della pluralità dei punti di vista e la necessità di contradditorio” in tutti i programmi di informazione, quindi pure i telegiornali, durante il periodo non elettorale.

Eppure prima avevamo detto il contrario, direte voi. Data la grande libertà di movimento all’Agcom, infatti, si è andati nel corso del tempo sempre più verso il senso appena descritto. Così, di fatto, perde di significato il concetto di pluralismo politico inteso come la fotografia delle diverse realtà politiche, e si va verso un pluralismo che si occupa solo di rendere note opposte interpretazioni che sono anche il segno di interessi contrapposti.

Poi c’è il fatto che i membri della Commissione parlamentare, come già detto, sono parlamentari, mentre i quattro componenti dell’Agcom sono eletti dal Parlamento, con il capo dell’esecutivo e il ministro dello Sviluppo economico che scelgono addirittura il presidente. Questo fa di loro degli organismi non del tutto indipendenti e imparziali, e per questo bersaglio di critiche.

A balzare agli occhi è però soprattutto la mancanza di regolazione della comunicazione su internet che rende la norma sulla par condicio anacronistica. Nel 2000, il web non aveva la stessa rilevanza che ha ora, sia chiaro, non c’erano i social network soprattutto, dove ora si fa tanta campagna elettorale (come vi abbiamo raccontato qua), quindi metterci mano dovrebbe essere una priorità, ma non è proprio così.

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